Al giardino della Memoria la commemorazione delle vittime dell\’Olocausto

A 66 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz,  Piacenza si è riunita questa mattina presso il giardino della Memoria di Stradone Farnese. Una cerimonia importante quella del Giorno della Memoria, perché importante è non ignorare e non dimenticare quello che stato uno dei momenti più bui della storia dell’umanità.

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Alla cerimonia, insieme ai rappresentanti delle forze dell’ordine, delle associazioni combattentistiche e ad alcuni studenti dei licei Colombini e Gioia, erano presenti il primo cittadino Roberto Reggi e il presidente della provincia Massimo Trespidi.

“In un’epoca che con troppa facilità tende a rimuovere il fardello della memoria che annichilisce e scuote le coscienze, onorare il ricordo di coloro che hanno subito la tragedia dell’Olocausto, significa riconoscere che quello stesso dolore del passato, per quanto gravoso sulle nostre spalle, può essere allo stesso tempo maestro nel preservarci dagli atroci crimini contro l’umanità già commessi” ha detto il sindaco durante il suo discorso.  Reggi ha poi continuato sottolineando l’importanza della celebrazione: “La memoria in questi tempi latita, è vaga, frastornata, presa a calci da un potere che tende a cancellare, in virtù di un’effimera apparenza, il senso del passato e il senso della storia. Che sono, poi, la rappresentazione del senso della vita”.

Massimo Trespidi è invece intervenuto ponendo l’accento sull’unità: “questo è un momento in cui tutti si ritrovano uniti, solidali e unanimi nel ricordare i morti e coloro che si sono opposti a questo progetto di sterminio. Oggi più che mai abbiamo il dovere di impegnarci per la dignità della persona, il dovere di insegnare e diffondere i valori di libertà, rispetto e solidarietà”. “Tutti sono chiamati ad essere testimoni di quello che accadde” ha concluso il presidente della provincia.

Dopo i due interventi hanno alcune ragazze dei licei hanno raccontato la loro visita ad un ex campo di sterminio tedesco e le impressioni di dolore raccolte tra quelle mura e quelle gabbie.Infine, prima della benedizione, è stato dedicato da tutti i presenti un intenso minuto di silenzio alla memoria delle troppe vittime dell’abominio nazista.

Il discorso del sindaco Roberto Reggi

In un’epoca che con troppa facilità tende a rimuovere il fardello di una memoria che annichilisce e scuote le coscienze, onorare il ricordo di coloro che hanno subito la la tragedia immane dell’Olocausto, significa riconoscere che quello stesso dolore del passato, per quanto gravoso sulle nostre spalle, può essere allo stesso tempo maestro nel preservarci dagli atroci crimini contro l’umanità già commessi.

Un Paese che non è custode della propria storia, anche nei suoi risvolti più duri e difficili da ripercorrere, non può avere futuro. Ed è con questa consapevolezza che oggi tributiamo il nostro omaggio commosso a tutte le vittime – furono 44 mila solo i deportati italiani – della follia, violenta e priva di qualsiasi giustificazione, del nazifascismo. Donne, uomini e bambini privati della loro dignità, della loro essenza stessa di persone, ridotte a numeri marchiati sulla pelle perché di religione ebraica, perché disabili, perché omossessuali, perché di radici etniche diverse da quelle della maggioranza della popolazione. O, semplicemente, perché non allineate al regime totalitario.

Gli alberi di questo giardino, spogliati dal rigore dell’inverno, portano alla mente di ciascuno di noi la stessa, fragile condizione degli internati nei campi di concentramento, teatri spettrali ma terribilmente veri di una sofferenza che si è consumata nel logorio del freddo, della fame, di insostenibili condizioni di lavoro forzato, ma anche nella crudezza del tormento psicologico e dell’accanimento. Sono simbolo e immagine forte, gli alberi, che in quegli anni di efferate violenze hanno esposto, come macabro trofeo tra i rami, i corpi dei partigiani uccisi nelle rappresaglie, quadro desolante di una natura in lotta contro se stessa, destinata a essere cornice delle umiliazioni che spesso si accompagnavano alle vessazioni fisiche.

Così commemoriamo, nell’anniversario dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, coloro che si opposero al nazismo a rischio della loro stessa vita, e quanti furono calpestati, violati, offesi e umiliati da quell’insana ideologia di morte. Perché i racconti dei sopravvissuti non esauriscono il nostro bisogno di dare voce a quell’orrenda realtà, e perché nei campi di concentramento nemmeno quello era possibile, come scrive Primo Levi tra le pagine di “Se questo è un uomo”: “Avevamo deciso di trovarci, noi italiani – narra – ogni domenica sera in un angolo del lager, ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci e trovarci ogni volta in meno. E poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo”.

Mai Primo Levi uscì da Auschwitz: la sua morte, un suicidio pesante come un macigno, avvenuta nell’aprile del 1987, ne è la conferma. Un tarlo che lo perseguitò per una vita intera, fino a quando la rivoltella tedesca non gli si presentò davanti trent’anni dopo, nel momento in cui, forse, la morte gli apparve persino desiderabile a paragone di quell’atroce ricordo. 

Oggi più che mai, invece, il non dimenticare è un dovere morale collettivo, che ci vede vicini non solo alla figura di coloro che non ci sono più, ma anche e soprattutto ai loro cari: figli che non hanno mai conosciuto i propri genitori, inghiottiti dal buio del filo spinato e delle ciminiere, fratelli e sorelle divisi per sempre, amicizie e amori infrantisi contro il muro della discriminazione e dell’oppressione. Anche nei loro confronti, è imbarazzante e inaccettabile sentir parlare – ancor più se avviene tra i giovani – di un fascismo  “buono”: un ossimoro che spaventa e sconvolge, come se il mito di illusorie bonifiche verbali e revisionismi politici potesse bilanciare, persino cancellare, gli errori e gli orrori di quegli anni.

Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, che ricorre in questo 2011 iniziato da poche settimane, sia allora l’occasione per celebrare quegli stessi ideali che, dal Risorgimento al cammino per la Liberazione, hanno dato al nostro Paese la forza e la comunanza di intenti necessarie per reagire alle barbarie dell’ideologia nazifascista, segnando nettamente il confine tra il bene e il male, tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.

Voglio citare, a questo proposito, il monito di Tullia Zevi, scomparsa pochi giorni fa e levatasi, per tanti anni, come una delle voci più attente e sensibili al valore del rispetto e della civile convivenza tra le diversità: “Bisogna ricordare – ha detto – che insieme ai sei milioni di ebrei sono morti anche centinaia di migliaia di zingari, di omosessuali, di intellettuali e oppositori politici del regime nazista. Sia religiosi, sia laici. Ci si deve rendere conto di cosa rappresenta la presa di potere di un regime dittatoriale, e si deve amare e conservare questa democrazia, che con tanta fatica abbiamo riconquistato”.

Perché la memoria è un patrimonio condiviso, sul quale costruire il nostro presente. Una memoria che in questi tempi latita, è vaga, frastornata, presa a calci e vituperata da un potere che tende a cancellare, in virtù di un’effimera apparenza, il senso del passato e il senso della storia. Che sono, poi, la rappresentazione concreta del senso della vita.