Coop Infrangibile, alcune associazioni: “Chiusura accanimento sproporzionato”

 Riceviamo e pubblichiamo il comunicato di varie associazioni e realtà legate alla cooperativa Infrangibile, contro il provvedimento di chiusura nato dopo gli accertamenti dei carabinieri riguardo al consumo e allo spaccio di sostanze stupefacenti. 

Radio Sound

"La cooperativa, le “droghe” e il quartiere infrangibile: dissertazioni su quanto le ipocrisie del sistema e i loro esecutori ci facciano vomitare.
Venerdì scorso, 5 giugno, la prefettura ha emesso decreto di chiusura per tre mesi, dopo indagine dei carabinieri partita dal rinvenimento di 4 + 0,5 grammi di hashish, nei confronti della Cooperativa Popolare Infrangibile 1946.
Storico presidio di socialità e dibattito nel quartiere piacentino, la Coop Infra rappresenta da sempre un caso più unico che raro: aderente a Lega Coop ma renitente ad assumere l’atteggiamento aziendalistico che la maggiore lega italiana ha adottato negli ultimi decenni. Realmente popolare, gestita da un’assemblea di soci con quasi 200 aderenti (e non si contano quelli alternatisi negli anni!) e punto d’approdo per chiunque voglia sviluppare progetti culturali o passare delle serate senza dover fare un mutuo in banca. 
Sì, perché la Coop rimane comunque un esercizio commerciale. Da lavoro a tre persone, su cui ora aleggia lo spettro della perdita del posto di lavoro, e nonostante questo è sempre stato l’unico locale in cui, se vuoi, vai e non consumi NULLA. In cui se vuoi entri, fai due chiacchiere, un ping-pong e te ne torni a casa. 
Una scelta coraggiosa in una città in cui la socialità appare sempre mediata dal consumo e dalla necessità di fatturare. Una scelta che probabilmente da anche tanto fastidio a chi non riesce a digerire questa logica, divorato dalla sete di guadagno.
Come NAP, viviamo la Coop sin da ragazzini e organicamente come collettivo dalla nostra nascita nel 2010: li facciamo le nostre riunioni, li facciamo le nostre feste e iniziative.
E’ quindi difficile per noi prendere parola: sebbene molti di noi siano soci della cooperativa, come collettivo e comitati ad esso collegati ci muoviamo da “ospiti” e non possiamo quindi sostituirci alla voce ufficiale che è appannaggio esclusivo del consiglio che amministra la Coop. 
E tuttavia, dopo anni di collaborazione, ci sentiamo di dover prendere parola nel rispetto totale di qualsiasi scelta che il consiglio adotterà.
Sulla Cooperativa si è già detto nell’introduzione, e pensiamo che parole ulteriori siano inutili: il valore storico della Coop è auto-evidente, basti pensare alla presa di posizione in suo favore pubblicata su libertà a firma dell’ ANPI. Come auto-evidente è il fatto che dia fastidio: in tempi di “obbligo di consenso” verso l’establishment politico di questo paese (inteso in senso Renziano ma non solo, ci riferiamo all’intero “teatrino” da Salvini a Grillo passando per Renzi, insomma quanto propinato dai TG), un luogo che ospita una discussione critica e controtendenza è un pericolo. Solo nell’ultima edizione i nostri seminari hanno raccolto più di 200 partecipanti con esponenti dell’economia e del pensiero critici come Fumagalli, Bologna, Mezzadra. Le assemblee che vi abbiamo svolto con il movimento operaio del polo logistico radunavano anche 300 persone in una volta sola. Anche in questo possiamo ravvisare un motivo dell’accanimento del decreto di chiusura, completamente sproporzionato soprattutto se relazionato a casi simili in città in cui, a fronte di accoltellamenti, risse e spaccio conclamato, si è assistito al massimo a tre giorni di chiusura. In Coop, questo lo sa chiunque, semplicemente NON C’E’ SPACCIO. Ma non è certo con una chiave di lettura vittimista o con principi di “proporzionalità” che vogliamo approcciarci a questa discussione, e infatti occorre parlare…
…di sostanze. Sì, quelle sostanze che sono state strumentalmente usate come “innesco” per il decreto di chiusura. La “droga” va sempre bene per essere sbattuta sui giornali e suscitare il plauso dei repressi e dei bacchettoni. Ebbene, vogliamo prendere il tema di petto. Il collettivo che vi parla non fa certo dell’antiproibizionismo una delle sue battaglie centrali. Certo, vogliamo un mondo libero, in cui persone correttamente consapevoli siano libere di fare quello che vogliono a 360 gradi. Se questo va contro la legge diciamo che la legge è sbagliata e che continueremo a batterci per un mondo libero da quelle stesse leggi sbagliate. Diciamo che chi si fa vanto sui giornali di aver scovato un pericoloso adolescente con due “cannette” ci suscita null’altro che ironia. Anche stendersi davanti a un camion in un picchetto sindacale è contro la legge (per la precisione “violenza privata”, quel “reato” grazie al quale da due anni tre nostri compagni hanno un foglio di via da Piacenza in seguito alle lotte dei facchini nel polo logistico), ma i giovani operai piacentini di TNT, GLS, IKEA ci hanno insegnato che se una legge è sbagliata…la si combatte! Eppure, dicevamo, non sono certo le sostanze il punto tematico che ci caratterizza come collettivo. All’interno della Coop, ad esempio, ci siamo sempre battuti per evitare fattispecie che avrebbero messo in difficoltà la struttura. Al centro della riflessione di chi volesse ragionare seriamente sull’accaduto dovrebbe essere a nostro avviso il nodo fra  commercio e consumo. Intraprendere una battaglia contro lo smercio di sostanze in un luogo della città che si concepisce come liberato non comporta in alcun modo una presa di posizione contro il loro consumo. Non spenderemo una parola riguardo all’uso che ognuno intende fare del proprio tempo. È del tutto fuorviante, quindi, vedere nel nostro impegno contro lo spaccio in Coop e nel quartiere Infrangibile un’iniziativa direttamente o indirettamente rivolta contro l’uso di sostanze. Statisticamente, è possibile che anche a qualcuno di noi appartenga la pratica dell’uso di sostanze (pratica che certo non ha esercitato in Cooperativa). È una contraddizione? Non crediamo: ciò che combattiamo è l’assoggettamento di un luogo di ritrovo, soprattutto in un’area urbana desertificata dal punto di vista sociale, ad attività approntate da imprese private dedite al commercio, non la possibilità in generale di usare o di procurarsi/prodursi determinati beni. Non tutti coloro che fanno uso di un bene prodotto con la trasformazione della natura e con il lavoro umano concordano con il modo in cui tale bene viene prodotto e distribuito nella società capitalista in cui viviamo, né con le implicazioni sociali che il suo commercio ha o può avere nel luogo specifico in cui viviamo. Questo vale per le droghe come per qualsiasi altra cosa. Un conto è discutere, come è sempre possibile fare, sull’utilità o la nocività di qualcosa: delle sostanze come dell’alcol, della bicicletta come delle automobili, di questo o quel prodotto agricolo o tecnologico, e così via; un altro sul modo di produzione capitalista in cui ciascuna di queste entità è una merce prodotta attraverso lo sfruttamento e distribuita attraverso forme di speculazione e assoggettamento delle vite e dei territori ad istituzioni legali o illegali (o a volte di entrambe, se ricordiamo la vicenda della squadra narcotici della questura di Piacenza dello scorso anno…). Non abbiamo mai creduto che il modo migliore per impedire lo sfruttamento minorile sia il boicottaggio di una marca di scarpe, o che per contrastare la repressione dei “sindacalisti colombiani” sia determinante astenersi dal bere coca-cola. Allo stesso modo nessuno di noi pensa di astenersi dall’uso di sostanze – qualora intenda farne uso – per “non finanziare le mafie”. Sono scelte soggettive e rispettabili, ma il nodo è un altro. Semmai occorre individuare le istituzioni e le imprese che assoggettano la creatività e i comportamenti al profitto e combatterle ove possibile, con i mezzi di cui disponiamo. La nostra ostilità è animata da un desiderio di cambiamento e da un’appartenenza di classe. Per questo è lungi da noi voler fare i moralisti rispetto a chi è ultimo anello di una catena che funziona come un’azienda (o tanto meno verso chi, fuori da qualsiasi azienda, compra o produce e distribuisce, semplicemente, in cerchie ristrette): al contrario, crediamo che i ragazzi che hanno (colpevolmente e sfuggendo al controllo dei gestori della Coop stessa) messo a repentaglio la Cooperativa con la loro ingenuità siano comunque vittime di questo modo di produzione e distribuzione inserito in un quadro di leggi sbagliate. 
 Il quartiere Infrangibile, così come il quartiere Roma, ha delle sue specificità. “Qui vivremo bene” scrivono i compagni nei quartieri occupati delle metropoli. Noi, città della (finta) pace sociale e con scarsa disponibilità dei nativi al conflitto, ci accontentiamo di poterlo dire negli atolli di socialità reale che riusciamo a costruire. La Coop in questo senso è un piccolo ma importante tassello di un mosaico della “città di sotto” che negli anni abbiamo costruito. Creare un mercato di sostanze, per quanto esiguo (davvero faceva sorridere quello 0,5 grammi riportato sul giornale cittadino!) a ridosso o dentro di essa, è di per sé un gesto di disprezzo verso le lotte e le attività che in quel centro si organizzano. Questo è il motivo per cui come NAP tentavamo di controllare la situazione, ma su tale vigilanza possiamo parlare con certezza anche a nome del consiglio della Coop stessa, che è sempre stato molto attento sull’argomento. Quale scusa migliore, per le forze dell’ordine, di un’attività simile in quel luogo per far fare al carabiniere la parte dell’angioletto e giustificare una stretta repressiva generale sull’argomento? Onestamente parlando, anche se la vedete politicamente agli antipodi rispetto a noi, quanto odio vi monta ogni volta che in Val Trebbia venite fermati e perquisiti (magari senza avere proprio nulla da nascondere) vedendo replicarsi quel moralismo istituzionale e oltretutto fondato sull’ignoranza del tema trattato? Questo, naturalmente, ai veri spacciatori (che NON stanno in Cooperativa) non interessa.  Cosa può loro interessare di questi tristi e noiosi aspetti “politici”, “sociali”, “utopistici”? L’importante è guardare al proprio piccolo orticello (grande nel caso dei fornitori). Ai capoccia, anzi, non importa neanche se i “dipendenti” finiranno in galera, specialmente se ragazzini minorenni alle prime armi. Ma è così che funziona, “the racket must go on”: in fondo, la manodopera del mercato illegale è una risorsa per chi la sfrutta, risorsa “illegale” anche per lo stato italiano che la discrimina e infine la ingabbia, due volte sottomessa e sfruttata; un po’ di galera (per i sottomessi) è messa nel conto dai loro padroncini. Qualche giornalista potrà gridare vittoria, chiedere più polizia nel nostro (e in altri) quartieri e, naturalmente, non farsi mancare di accusare i “compagni” di connivenza o contiguità con questi fenomeni, il che non fa mai male. Si noti che il moralismo istituzionale sul consumo, che indubbiamente esiste e ha caratteri propri, ancora una volta si distingue da quello sul commercio. Il commercio viene da sempre condannato dalle istituzioni legali, ma sempre, regolarmente, favorito e promosso. Si pensi all’azione di Israele, che favorisce lo smercio di sostanze nei territori palestinesi e a Gerusalemme est, per inquinare le relazioni sociali e distogliere i giovani dalla voglia di continuare a resistere. Si pensi all’uso che gli stati dell’America Latina hanno fatto, nei decenni, del loro braccio armato illegale (i narcos) contro le guerriglie comuniste e i progetti di autogestione e autogoverno nelle città e nelle campagne. Si pensi, senza andare tanto lontano, ai legami tra stato e narcotrafficanti dal nord a sud dell’Italia, almeno dagli anni Sessanta e Settanta. Se da un lato si trattava, già in quell’epoca, di accumulare capitali da investire nella devastazione democristiana della penisola (poi Berlusconiana, oggi Renziana: cambiano soltanto gli anni sul calendario e i nomi dei clan), dall’altro si trattò di avere una rete di picchiatori e informatori in ogni quartiere, per debellare ogni resistenza antagonista, dall’hinterland milanese alla Sicilia.
Concludendo, è questo che vogliamo? Che la spunti questa doppia morale schifosa e reazionaria? O volgiamo, collaborando tutti (collettivi, associazioni, gruppi politici e non, soci e semplici fruitori della Cooperativa) impegnarci da un lato nel prevenire pratiche oggettivamente nocive alla sopravvivenza di un tassello di socialità “altra” e dall’altro nel denunciare la sproporzione della manovra repressiva, la sua strumentalità e il quadro di ipocrisie nel quale si inscrive? Le due cose vanno fatte, per essere efficaci, all’unisono. Perché non è ne facendo i “fricchettoni” spensierati ne facendo le vittime collaborative col carnefice che si può evitare il ripetersi di un evento spiacevole ma prevedibile, nonostante gli enormi sforzi che i soci tutti e il consiglio della Coop in particolare hanno fatto per “raddrizzare” una socialità di quartiere che sarebbe altrimenti stretta fra il consumo fine a se stesso delle discoteche commerciali e la solitudine (a volte disperazione) di tanti giovani e meno giovani a cui si impone come unica alternativa alla rinuncia al sorriso la scelta di una socialità sana che fuoriesca dalla logica di assoggettamento e ipocrisia su cui troppo spesso si fondano la nostra città, il nostro paese e il nostro sistema economico".
 

NAP (Network Antagonista Piacentino)

Comitato Antisfratto Piacenza

Palestra Popolare Teofilo Stevenson
Comitato No Expo Piacenza