Scuola e apprendimento, il pedagogista piacentino Daniele Novara al convegno di Milano

Daniele Novara sul giorno della memoria
Daniele Novara

Intervengono pedagogisti e studiosi, tra cui: Daniele Novara, Paolo Ragusa, Silvia Vegetti Finzi, Alberto Oliverio, Milena Santerini, Anna Oliverio Ferraris, Francesco Dell’Oro. Interviene anche Bruno Tognolini, poeta e scrittore.

Radio Sound

Il convegno “La lezione non serve” ha l’obiettivo di far riflettere sul fatto che la lezione frontale, su cui si basa ancora il nostro sistema scolastico, si fonda su una grande illusione: gli alunni “devono ascoltare”. Come dimostrano tutte le ricerche neuroscientifiche, bambini e ragazzi apprendono dall’imitazione (i neuroni a specchio!), dall’interazione sociale con i compagni e nel fare esperienza diretta, usando le conoscenze acquisite imparano ad affrontare i problemi.

Mille ragioni psicoevolutive e neurocerebrali ci dimostrano che apprendere dalla lezione frontale è molto difficile, per non dire impossibile. La scuola italiana è ingabbiata nella didattica della “risposta esatta”. Quiz e test a crocette, erroneamente considerati strumenti didattici moderni, sviliscono le capacità di apprendimento di ragazzi.  Per questo motivo riteniamo urgente investire sulla formazione metodologica degli insegnanti, dalla scuola primaria alle superiori, offrendo loro dispositivi pedagogici innovativi, per liberarli finalmente dagli sterili automatismi del passato.

Il CPP organizza il convegno nazionale “La lezione non serve” con l’obiettivo di promuovere la metodologia maieutica per elevare il livello pedagogico della scuola, restituire agli insegnanti il loro ruolo educativo e far lavorare i bambini e i ragazzi nella costruzione del loro stesso apprendimento.

L’equivoco di base

La scuola italiana ha un problema che si perde nella notte dei tempi. Un equivoco, profondamente radicato e pervasivo, che ha un nome preciso: lezione frontale. La didattica della scuola italiana si basa ancora sulla convinzione che il metodo più efficace perché bambini e ragazzi apprendano un argomento consiste nel leggere loro un testo, a cui segue la spiegazione dell’insegnante. La lezione frontale richiede molta capacità di attenzione, che, come dimostrato da tante ricerche neuroscientifiche, non è sostenibile neanche dagli adulti, figurarsi da bambini e ragazzi. La lezione frontale non implica alcuna competenza pedagogica: si spiega, si richiede agli studenti lo studio individuale, attraverso la ripetizione dei contenuti spiegati, e, infine, si interroga e si valuta l’alunno.
Una questione di attenzione

L’attenzione è “selettiva”, ossia sceglie di cogliere alcuni stimoli e ne ignora altri, da cui il cervello è bombardato simultaneamente. I bambini sviluppano presto l’attenzione “selettiva” e, piano piano, crescendo diventano capaci di gestirla in modo “volontario”, sviluppando nell’adolescenza una sempre maggiore capacità di concentrazione. Mantenere l’attenzione costante nel tempo, così come richiesto dalla lezione frontale, non è un processo stabile e progressivo, bensì un’alternanza continua, quasi ciclica, tra momenti di attivazione e pause. È un processo fisiologico, estremamente individuale, influenzato da numerosi fattori: le risorse individuali, la motivazione, le caratteristiche personali, la stanchezza. La massima capacità di attenzione si registra attorno ai 18/26 anni e non supera i 40/45 minuti di tempo. In classe l’apice di attenzione raggiunge i 10 minuti, poi cala progressivamente per altri 20 minuti e riprende a salire dopo circa mezz’ora dall’inizio della lezione. Inoltre, considerato che in classe alunni e studenti sono sottoposti a infiniti fattori di interazione e disturbo, è facile rendersi conto come la lezione frontale sia chiaramente fallimentare. Quindi, dopo 50 minuti di spiegazione, è normale che i ragazzi abbiano adottato la tecnica dello sguardo catatonico: si concentrano sull’insegnante senza minimamente ascoltarlo.

Non si impara da soli

Il migliore processo di apprendimento non si attiva mai in solitudine, ma nello studio di gruppo. Il genio intellettuale, che studia isolato, come Vittorio Alfieri che si lega alla sedia o Giacomo Leopardi rinchiuso nella biblioteca paterna, non sono modelli ma personaggi speciali, l’eccezione che conferma la regola. Le scoperte legate al sistema dei neuroni specchio confermano l’importanza dell’interazione sociale per imparare: osservando gli altri nel nostro cervello si attivino le stesse aree necessarie per acquisire quelle informazioni. Inoltre, il gruppo attiva numerosi elementi emotivi e motivazionali e favorisce le capacità cognitive. La scuola, per sua natura sociale, gestisce un processo di apprendimento di gruppo, in cui la logica dell’isolamento è fuori contesto. Purtroppo nella pratica tutto ciò non viene minimamente considerato nella scuola italiana, anzi, constatiamo quotidianamente che nella maggior parte delle classi di ogni ordine e grado ha ancora un ruolo egemone la lezione frontale, che prevede la trasmissione nozionistica e individuale della risposta considerata “esatta”, che deve essere rielaborata in solitudine, nella convinzione diffusa che il confronto con gli altri sia solo una perdita di tempo, un elemento che disturba il tradizionale processo di apprendimento.

La didattica digitale, di male in peggio

A un certo punto è comparso il digitale, con la presunzione di poter risolvere i problemi della scuola italiana. Di male in peggio. Programmi e investimenti si sono tutti rivolti alla tecnologia nella convinzione che in questo modo si sarebbe miracolosamente risolto il progressivo declino di motivazione, interesse e rendimento scolastico delle nuove generazioni di bambini e ragazzi. Invece, a un problema irrisolto ne abbiamo aggiunto un altro, che peggiora ulteriormente la situazione. Il digitale, infatti, crea dipendenza da stimoli visivi e interattivi e diminuisce l’interesse nei confronti della realtà rendendo ancora più fragile la capacità di attenzione. In particolare nei più piccoli, i videoschermi impediscono il corretto sviluppo di alcuni schemi motori alla base di fondamentali meccanismi cognitivi. Le ricerche scientifiche sono giunte a una conclusione inequivocabile: quando impariamo a leggere e scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti, e mettiamo in atto un processo di apprendimento tattile che richiede l’uso sia degli occhi che delle mani stimolando la strutturazione di importanti circuiti cerebrali dedicati alla lettura, che si attivano solo quando provando a scrivere le lettere a mano e non digitando su una tastiera. Scrivere a mano sviluppa capacità visive, viso-motorie e viso-costruttive che l’uso della tastiera non stimola. Inoltre, la motricità fine legata alla scrittura influenza anche le capacità mnemoniche. Da recenti studi emerge un altro fatto molto interessante che nella scuola primaria i temi scritti a mano libera risultano più creativi e, migliore anche per la capacità critica. Insomma, la tastiera o la tecnologia touch, introdotta fin dalla tenera età, ha dimostrato di produrre più danni che benefici. Per diventare uno strumento utile all’apprendimento la tecnologia deve restare all’interno di una cornice di utilizzo collettivo e sociale come può essere il caso di due o tre computer da utilizzare a gruppi in classe o della LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) viceversa l’uso individuale porta all’isolamento e provoca gli effetti negativi già ricordati.

Un nuovo modello: azione, osmosi, opportunità

Quello che propongo non è un metodo definito una volta per tutte. Ritengo che l’elemento discrezionale dell’apprendimento a scuola richieda la competenza pedagogica dell’insegnante, la cui abilità consiste proprio nel trovare la via adatta alle caratteristiche del singolo alunno e dello specifico gruppo classe. Esistono però delle condizioni a partire dalla quali si può costruire un modello di riferimento metodologico. Per descriverlo usiamo tre termini chiave: azione, osmosi sociale, opportunità. Prima di tutto partiamo dall’assunto che si impara facendo: l’azione ha un valore fondamentale, soprattutto nell’apprendimento infantile quando la capacità di pensiero è in formazione, ma resta centrale anche quando le competenze logico-razionali più astratte sono acquisite. Nell’azione imparo. Anche questo aspetto è confermato da diverse ricerche scientifiche: l’apprendimento autodiretto o attivo dà risultati decisamente migliori di quello passivo, non solo per le dinamiche motivazionali che lo sostengono ma anche perché siamo in grado di insegnare qualcosa a qualcuno verifichiamo davvero cosa abbiamo imparato. Ascoltare una lezione ci pone in una situazione di passività che non ci consente di imparare. Stimolare l’attività è uno degli elementi fondamentali per un nuovo approccio metodologico. Quanti insegnanti si lamentano: “Non imparano niente, è ovvio… non mi ascoltano!” Bisogna cambiare prospettiva. La vera domanda è: “Come posso ridurre al minimo il tempo dedicato all’ascolto e riuscire a mantenerli attivi?” Oggi qualsiasi formatore competente sa che se vuole ottenere un risultato dagli adulti deve dosare e organizzare al meglio il percorso, lavorando per mantenere viva l’attenzione, per stimolare e attivare connessioni, evitando il più possibile la passività.
C’è poi un secondo aspetto strategicamente essenziale: il gruppo. A scuola si impara nel gruppo e dal gruppo. S’impara molto di più dai coetanei che dagli insegnanti. L’esempio dei compagni, rivelando i propri meccanismi personali in azione, stimolano più facilmente la comprensione e l’attivazione. Nella scuola imperversano il divieto di copiatura, la proibizione al confronto reciproco, lo scarso utilizzo dei lavori di gruppo, mentre sono sottostimate le potenzialità della peer education o insegnamento reciproco. la rielaborazione e valutazione individualizzata degli apprendimenti è necessaria, ma perché gli alunni ottengano migliori risultati è necessario dar loro la possibilità di osservare e imitare quello che fanno i compagni. Tra l’altro le dinamiche di gruppo sono una risorsa preziosa non solo per l’alunno ma soprattutto per l’insegnante. Sempre più spesso gli i docenti si arroccano nella propria materia, nel proprio spazio di competenza, trascurando l’impostazione pedagogica centrata sul gruppo classe. È diminuita la progettualità comune, la coesione educativa scarseggia, la gestione dei alunni è più individuale che sociale. La tendenza sempre più diffusa di affrontare la relazione insegnante-alunno sul piano personale, incentivata dalle direttive ministeriali sulla didattica individualizzata per bambini con diagnosi di disturbi dell’apprendimento, ha fatto perdere di vista il ruolo e le potenzialità del gruppo classe.

Non è possibile una didattica efficace senza il gruppo classe. Per imparare gli alunni devono interagire e influenzarsi reciprocamente. Più l’interazione viene favorita dagli insegnanti più la classe imparerà. L’apprendimento è un processo osmotico. Paradossalmente spesso lavorare sul gruppo è percepito dai docenti come una perdita di tempo, mentre è esattamente il contrario. Il senso di appartenenza, la capacità di interagire e gestire la conflittualità, la costruzione di un ambiente sereno e stimolante, attivano la motivazione, il senso di autoefficacia e i processi cognitivi. Non si può farne a meno. Occorre, insomma, far funzionare la classe come gruppo.

Nel processo di apprendimento tutti agiscono in maniera opportunistica, ossia in maniera discrezionale, imparando soprattutto ciò che rispecchia il proprio interesse adattandolo alle proprie possibilità e risorse. È il meccanismo della sostenibilità individuale, quello che chiarisce l’inutilità del dare consigli: posso spiegarti benissimo quello che farei io, ma non diventerà mai quello che farai tu se non è sostenibile interiormente per te, se non aderisce alla tua logica di interazione con il mondo. Ognuno impara quello che vuole e che può: c’è uno scambio profondo fra le risorse individuali e l’esperienza che un allievo vive. Un docente competente sa cogliere e sfruttare le dinamiche opportunistiche a vantaggio degli obiettivi d’apprendimento, e sa riconoscere la diversità delle risorse valorizzando il percorso individuale più del risultato.

La maieutica come approccio vincente

Anche la maieutica, come la lezione frontale, risale alla notte dei tempi ma, al contrario di quella, risulta ancora oggi innovativa perché più aderente alle condizioni che permettono di imparare in modo efficace. Da Socrate a sant’Agostino, fino a Maria Montessori, Danilo Dolci o Paulo Freire, l’approccio maieutico all’apprendimento parte dall’assunto che, all’opposto della lezione frontale, l’attore del processo di apprendimento è lo studente, non il docente.
La maieutica è orientata a sviluppare la capacità di acquisire apprendimenti che portano l’alunno a fare da solo e a essere in grado di costruire delle competenze permanenti, non estemporanee né basate su performance puramente ripetitive. Può essere sintetizzato in un’idea: “Fare esperienza insieme agli altri e affrontare in gruppo i problemi che rendono capace di imparare autonomamente” e si struttura in quattro precise condizioni procedurali:

– impostare una situazione stimolo aperta, che generi problemi e domande maieutiche. Significa attivare e creare un momento di impatto e di sorpresa. Qualcosa che favorisca anche un decentramento, e l’incontro con l’inedito. È il meccanismo della motivazione estrinseca che però questa volta, invece di essere impostato classicamente sulla punizione o la gratificazione, funziona come stimolo. Ti attivo, ti coinvolgo, ti sorprendo, ti muovo.

– Proporre e costruire esperienze. Il ruolo del docente è quello di progettare un ambiente e delle situazioni di lavoro, non di sostituirsi allo studente nel percorso. L’obiettivo è l’azione: incontri, sperimentazioni, laboratori, percorsi, ricerche, confronti sono alla base di questa impostazione didattica, e il mezzo è il gruppo dentro al quale il percorso esperienziale si arricchisce delle risorse e delle potenzialità, come anche dell’esperienza del limite, di ciascuno.

– Attivare riconnessioni e scoperte. È la fase del debriefing. Dopo che l’esperienza è stata fatta occorre un lavoro in cui si cerca di capire, di riconnettersi a ciò che già si conosce, verificare ciò che è stato scoperto. È la fase della rielaborazione attiva del materiale che comporta anche il processo di memorizzazione, riproposizione e infine archiviazione di ciò che si è imparato.

– L’ultimo step del processo riguarda le ricadute operative e le esercitazioni. È l’operatività, la possibilità di riutilizzare in contesti e momenti diversi quello che si è appreso che garantisce l’aver imparato.

In questa logica, tanto antica quanto innovativa, la procedura didattica si svolge in una dinamica opposta a quella della spiegazione frontale che apparentemente appare semplice da gestire ma che, nella realtà, si rivela estremamente complessa, come precedentemente dimostrato.

Il dispositivo maieutico è operativamente semplice ma richiede un passaggio implicito poco scontato e quasi ostico: superare il codice della dipendenza e affrontare la prospettiva dell’autonomia. Il presupposto fondamentale è che chi impara deve attivarsi, sviluppare le proprie risorse, non restare abbarbicato alla presunta sicurezza della pura e semplice ripetizione.

Il ruolo di regia dell’insegnante
Per sviluppare le potenzialità di questo nuovo approccio occorre focalizzarsi sul ruolo dell’insegnante. Spesso l’aspetto che mette in crisi l’insegnante nasce proprio dal timore di non riuscire più a comprendere e gestire la propria funzione nell’insegnamento. “Se l’apprendimento è un processo individuale che nasce nel gruppo classe e dall’interazione, io cosa ci sto a fare?”.

Ma l’educatore maieutico predispone le esperienze formative, piuttosto che dirigerle e controllarle pedissequamente. È un passaggio strategico e forse epocale perché può consentire agli insegnanti italiani di recuperare quello che oggi, la società e la famiglia sembrano mettere sempre più in discussione e che, invece, è proprio la specificità della competenza e professionalità: il ruolo del regista. Il docente è chi, a partire da una conoscenza che va mantenuta e aggiornata sa come impostare, gestire e regolare il lavoro collettivo del gruppo classe e individuale di ciascuno, finalizzandolo all’obiettivo di apprendimento. Che deve essere sempre un obiettivo condiviso in una prospettiva pedagogica con i colleghi, perché l’educazione a scuola non può essere parcellizzata in ambiti e materie come se imparare fosse qualcosa che procede per compartimenti stagni.

Altri contenuti sul convegno alla pagina http://cppp.it/convegno/home.